

Negli ultimi mesi, i social e il marketing visivo sono stati travolti da un nuovo protagonista: l’intelligenza artificiale generativa. Immagini iperrealistiche, video impossibili da distinguere da quelli “veri”, scenari surreali, sogni digitali: l’AI ha trasformato non solo il modo in cui creiamo i contenuti, ma anche il modo in cui li percepiamo.
Per millenni il cervello ha imparato a riconoscere la realtà attraverso segnali visivi e sensoriali.
Oggi, questi stessi segnali possono essere riprodotti da un algoritmo in pochi secondi.
Il risultato? Il nostro cervello crede a ciò che vede, anche quando ciò che vede non esiste.
Un volto generato dall’AI, se realistico, suscita emozioni reali: empatia, attrazione, curiosità, persino fiducia.
Eppure, sappiamo che dietro quel volto non c’è nessuno.
L’“uncanny valley” è un concetto che descrive il disagio che proviamo davanti a qualcosa di quasi umano ma non del tutto.
I contenuti AI, specie quelli visivi, ci stanno portando proprio in quella zona grigia:
Questo genera una sensazione di disorientamento cognitivo: il cervello non sa come collocare ciò che vede, e l’attenzione aumenta.
È per questo che molti contenuti AI ci affascinano tanto: sono strani ma familiari, e quindi irresistibili.
Le immagini AI incarnano il concetto di iperrealtà: ci mostrano un mondo “più vero del vero”.
Colori più saturi, simmetrie ideali, volti perfetti, luce impeccabile: l’AI non imita la realtà, la migliora.
E noi, inconsciamente, la preferiamo.
Il cervello è attratto dalla simmetria e dalla coerenza visiva: è più facile da elaborare, quindi più piacevole da guardare.
Il paradosso?
Più le immagini diventano perfette, più rischiano di perdere la loro umanità emotiva.
Per secoli, “vedere” ha significato “credere”.
Oggi, “vedere” significa “verificare”.
La fiducia visiva è diventata fragile.
Il cervello continua a reagire istintivamente alle immagini come se fossero reali, ma la mente razionale si trova costretta a dubitare.
Questo duplice livello cognitivo — emozione vs. consapevolezza — genera fatica percettiva: una forma sottile di stress legata all’incertezza del vero.
Nel contesto della comunicazione, ciò implica un enorme cambiamento:
Un errore comune è contrapporre AI e creatività, come se la prima minacciasse la seconda.
In realtà, la creatività è un processo di associazione e rielaborazione — proprio ciò che l’AI fa su scala amplificata.
La differenza?
L’AI non ha intenzione né esperienza emotiva.
È l’essere umano a dare senso, direzione e valore simbolico alle immagini generate.
Per questo, l’AI non sostituisce la creatività umana: la espande.
Diventa uno strumento per esplorare possibilità visive che la mente da sola non avrebbe immaginato.
L’importante è mantenere la consapevolezza psicologica del processo: sapere quando e perché usare l’AI, non solo come.
Nel design, nella pubblicità e nei social, l’AI ha portato tre grandi cambiamenti
Questo apre una domanda chiave: come cambierà la nostra percezione di “vero” e “bello” quando entrambi diventeranno generabili a comando?
Con la potenza espressiva dell’AI arriva anche una responsabilità etica: comunicare in modo trasparente.
Il pubblico non teme la tecnologia, ma teme la manipolazione.
Per questo, chi lavora nella comunicazione deve:
Solo così l’AI può diventare un alleato etico, e non un inganno visivo.
Ecco alcune strategie pratiche per usare le immagini AI in modo psicologicamente efficace e responsabile:
Le immagini e i video creati dall’intelligenza artificiale stanno riscrivendo le regole della comunicazione visiva. Ci costringono a ridefinire il concetto di verità, di creatività e di fiducia.
La sfida per chi comunica oggi non è competere con l’AI, ma umanizzare il suo uso: restituire significato, emozione e intenzione al linguaggio visivo del futuro.
Perché, in fondo, anche nel mondo delle immagini artificiali, il messaggio più potente resta sempre quello più umano.
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